02/08/2014

Storia del Trotto: Alessandro Finn, il Mago Russo che visse in Italia

di admin

Tirava un vento gelido quando Alessandro Finn, guidatore del principe Vladimiro Diamantidi, sentì bussare violentemente alla porta della scuderia. Erano i soldati dell’Armata Rossa che, in piena rivoluzione d’Ottobre, gli consegnarono un documento. C’era scritto che i dieci cavalli del principe erano stati nazionalizzati: li doveva considerare proprietà del popolo russo. In quella notte del 1917 il giovane driver non chiuse occhio. Nato nel 1883, Alessandro Finn era un tipo sveglio, capì subito che se già era stato difficile correre per il principe, farlo per l’intero popolo russo sarebbe stato impossibile; tanto più che si trattava di un popolo affamato, il che non è propriamente lo stato ideale per riconoscere il meglio in un cavallo da corsa.
A quel punto Finn prese la decisione della sua vita, che Max David, grande giornalista degli Anni 50 e gentleman di trotto allievo dello stesso di Finn, riassunse così: «Aveva buttato giù un piano […]: 1°) Unire il proprio destino a quello dei dieci cavalli. O salvi tutti, o nessuno; 2°) Evitare qualsiasi compromesso con i bolscevichi; 3°) Trasferire al più presto l’intera scuderia in prossimità di qualche porto o di qualche frontiera terrestre da cui fosse possibile raggiungere la libertà» (‘Gli Italiani a Cavallo’, Bietti 1967).

La fuga
Fu così che Alessandro Finn portò dieci cavalli da Coslof a Novrosisky, sul Mar Nero, una transumanza con l’aggravante che gli avrebbero pure potuto sparare addosso. Spiega sempre David: «tentare di far sopravvivere dieci cavalli da corsa a una rivoluzione come quella bolscevica non era impresa facile». Ma lui ci provò e pensava di esserci riuscito quando, poco dopo il suo l’arrivo, Novrosisky fu accerchiata dall’Armata Rossa accerchiò la città. Si poteva fuggire solo dal porto e quindi lui andò al porto e si sistemò con i suoi dieci cavalli da corsa sistemati su un molo, dove la gente sembrava impazzita. Riuscì a imbarcarli tutti su un piroscafo che oggi chiameremmo una ‘nave dei disperati’ (perché le “navi dei disperati” sono una costante della storia, cambiano sono solo le rotte). Da prima finirono a Istambul, dove Finn si unì alla locale comunità degli esuli russi. Ma Istambul non aveva ippodromi, quindi si imbarcò ancora: questa volta per Brindisi da dove puntò su Firenze. Li i dieci trottatori antibolscevichi tornarono in pista e vinsero pure. Due divennero soggetti importanti nel nostro allevamento: lo stallone Penny e Goretchawkalu, che fu fattrice fondamentale della scuderia Bersani-Garegnani, negli Anni 20 rilevata da Orsi-Mangelli, la storica formazione di trotto per la quale proprio Alessandro Finn fece le su imprese più belle. Ma il destino volle che si stabilisse a San Siro, dove arrivò nel 1921. E dall’ormai scomparso trotter di Milano partì per conquistare la bellezza di sei Amerique, un record ancora oggi. La prima affermazione arrivò nel ’24 con Passeport di Orsi Mangelli, per replicare nel ’35 e nel ’37 con il doppio dell’americano Muscletone, il suo cavallo mito. Nel ’38 e ’39 fece seguire un altro doppio con De Sota, altro mangelliano al pari di Migty Ned, col quale nel ’51 ottenne l’ultima affermazione.

 

Diamati e magia
Per gli appassionati milanesi Finn divenne ben presto il Mago Russo del quale si vociferava (a ragione) possedesse un sacchetto di diamanti portato con sé sfuggendo ai rivoluzionari e impiegato nei momenti di crisi della scuderia; perché già allora era più facile convertire diamanti in cavalli che viceversa. Qualcuno addirittura sosteneva avesse un fluido magico che gli permettesse di parlare ai cavalli. Ma altri, più realistici, spiegavano che Finn parlava sì, ma non con i cavalli bensì con altri esuli russi, che stabilitisi negli Usa gli permisero di importare in Italia i primi grandi trottatori.
La verità incontestabile è che Finn, che dal 1964 riposa al cimitero Maggiore di Milano, a due passi da San Siro, capì in anticipo l’importanza di allenare i cavalli a fondo e con il cronometro alla mano, che per primo portò anche in sulky. Per questo divenne il maestro di molti allenatori e driver milanesi, grazie ai quali si formò una scuola informale. Il prestigio che lo attorniava traspare anche da un bel racconto scritto negli Anni 60 dal giornalista appassionato di ippica Vittorio Notarnicola e pubblicato in ‘Storie di cavalli’, antologia curata da Leonardo Vergani. Qui il protagonista, modesto e strampalato guidatore milanese, nella corsa della vita sceglie appunto di seguire le mosse dell’ormai anziano campione: «Non appena vide che il driver davanti a lui era Finn, il terribile bisnonno di San Siro, prima guida della Castelverde, favorito, favoritissimo. […] decise di stargli dietro: se Finn passava, lui seguiva. A Finn una carognata non gliela facevano, se invece passava lui magari gli menavano». In un certo senso poi gliel’hanno fatta, ma solo qualche mese fa…